La ricetta dell’amore è dietro a due ormoni: l’ossitocina e la vasopressina. Una ricerca dell’Università della California a Santa Barbara ha scoperto il perché, a un certo punto, si riesca a mettere il benessere dei persona amata sopra il nostro. Questo altruismo ha una motivazione genetica e ormonale.
L’ossitocina è un neurotrasmettitore conosciuto come “l’ormone delle coccole”. Meno noto è l’ormone vasopressina, che gli scienziati hanno anche collegato con i comportamenti del legame di coppia. Il team di studiosi americani ha analizzato alcune coppie di giovani sposi per indagare su come la genetica e l’attività cerebrale di una persona siano in correlazione con l’empatia che mostrano verso il loro partner. Il gruppo di lavoro ha testato ciascun partecipante per due varianti genetiche, una coinvolta nella sensibilità dell’ossitocina e un’altra collegata alla sensibilità alla vasopressina. I ricercatori hanno quindi chiesto loro di rispondere a un questionario standardizzato in cui si chiedevano i loro sentimenti nei confronti del loro partner e di altre persone.
Ciò ha dato loro una misura dei livelli generali di empatia e altruismo di ciascuna persona nei confronti del proprio partner.
Grazie a una risonanza magnetica è stato possibile vedere come diverse parti del cervello si attivino in risposta a diversi tipi di stimoli. E’ in questo momento che ai partecipanti sono state mostrate le foto dei loro partner, dei loro amici e di sconosciuti con diverse espressioni facciali.
Quando i partecipanti sentivano un forte senso di empatia con la persona nella figura, le regioni del cervello associate all’emozione e alla memoria emotiva si “accendevano”. Queste aree del cervello (come l’amigdala e il pallido ventrale) hanno una concentrazione particolarmente densa di recettori per l’ossitocina e la vasopressina, implicando ulteriormente questi neurotrasmettitori nell’empatia e nell’altruismo. Inoltre, gli individui con variazioni genetiche che li rendevano più sensibili a questi ormoni mostravano risposte emotive più forti su tutta la linea. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Behavioral Neuroscience.
(fonte: ANSA Salute, 12.02.2019)